Storia della ricerca sugli effetti sociali dei media

Come afferma Gianni Losito, professore di Sociologia all’Universitá “La Sapienza” di Roma ed autore de “Il potere dei media”, il dibattito sugli effetti negativi e manipolatori delle comunicazioni di massa si accende con toni aspri e polemici ogni qual volta ci si trova in presenza di particolari tensioni politiche e sociali.

Ma il rischio di un dibattito troppo acceso e “passionale” è quello di dimenticare i risultati ottenuti dalla ricerca sociale e psicosociale nei suoi ormai ottant’anni di studi sull’argomento.

Nasce il villaggio globale

Una delle caratteristiche più rilevanti del ventesimo secolo è senz’altro l’avvento e la rapida e capillare diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, che hanno permesso la nascita di quello che negli anni sessanta McLuhan ha definito il “villaggio globale”, riferendosi a un mondo in cui, grazie ai media, tutti possono essere informati su tutto.

Come nelle società semplici le comunicazioni interpersonali garantivano la circolazione delle informazioni e la conoscenza delle cose e degli eventi, così nel villaggio globale i media , annullando, come dice Meyrovitz, l’esistenza dello spazio fisico, si fanno strumenti di una potentissima “sensorialità” coinvolgendoci in temi che possono riguardare qualsiasi parte del mondo e della società e a cui una volta non ci era permesso avvicinarsi, “non credevamo fossero affari nostri”.

Questo del villaggio globale è il risultato di un processo culminato con l’avvento e la rapida diffusione della televisione ma iniziato nel diciassettesimo secolo, quando i primi giornali hanno dato avvio alla storia delle comunicazioni di massa.

Tuttavia è solo all’inizio del ventesimo secolo, grazie all’innalzamento del tenore di vita, alla progressiva riduzione dell’analfabetismo, al diffondersi sempre più capillare di giornali e periodici ed all’affermarsi di cinema e radio come mezzi di comunicazione realmente ‘popolari’ , che si può parlare di un vero coinvolgimento di massa.

E sempre all’inizio del ventesimo secolo, con la consapevolezza che, con la loro diffusione, i media stanno assumendo un ruolo sempre più rilevante all’interno della struttura della società, sorgono…

Le prime polemiche

Vi sono due posizioni contrapposte, una a favore e l’altra contro i mezzi di comunicazione di massa. La prima posizione vede i mass media come istanze democratiche e modernizzatrici che contribuiscono ad attenuare le barriere esistenti tra le diverse classi sociali, proponendo a tutti le stesse informazioni, gli stessi programmi culturali e di evasione, creando un’opinione pubblica più informata e consapevole e rafforzando la partecipazione sociale e politica e quindi la democrazia.

La seconda posizione vede invece i mezzi di comunicazione di massa come strumenti al servizio della logica dello sviluppo capitalistico, quindi come un’industria culturale che produce un prodotto destinato ad un pubblico che deve essere il più omogeneo possibile.

In questa visione i media sono una forza che tende a creare nel pubblico una predisposizione alla passività e alla manipolazione, funzionale al perpetuarsi dei rapporti di potere.

Harold D. Lasswell (1902-1978), scavalcando entrambe le posizioni proporrà una visione dei media come meri strumenti, utilizzabili sia per fini buoni che malvagi, quindi, come tali, non sarebbero più morali od immorali di una “leva per la pompa dell’acqua”.

Il presupposto che però condivide con le due precedenti posizioni è quello dell’onnipotenza dei media e della pressoché totale passività del pubblico visto come massa amorfa che obbedisce ciecamente allo schema stimolo-risposta (d’impostazione comporatamentista).

Quest’opinione, su cui Lasswell basa la sua ipotesi, si ricollega ed è ispirata alle teorie psicologiche e sociologiche dell’epoca: il behaviorismo ( o comportamentismo, già nominato) introdotto fin dal 1914 da John B. Watson, le teorie sul condizionamento del russo Ivan P. Pavlov, gli studi di uno dei pionieri della psicologia sociale, il britannico William Mc Dougall, ed infine la “psicologia delle folle”, all’interno della quale troviamo una prima formulazione del concetto di influenza sociale dei media.

La psicologia delle folle

Fautori del sorgere della cosiddetta psicologia delle folle sono il sociologo italiano Scipio Sighele (1868-1913) e lo psicopatologo francese Gustave Le Bon (1841-1931), i cui saggi La folla criminale e Psychologie des folles risalgono rispettivamente al 1891 e al 1895 ed avanzano teorie sulla spiegazione delle “ violenze collettive della plebe”, dagli scioperi operai alle rivolte popolari.

Entrambi gli autori condividono la stessa visione del comportamento delle masse: in tutte le folle vi sono dei capi e dei seguaci, degli ipnotizzatori e degli ipnotizzati, legati gli uni con gli altri da meccanismi di “contaminazione”, “suggestione”, “allucinazione”.

Nella seconda edizione dell’opera di Sighele, pubblicata nel 1901, vengono trattate ampiamente le nuove “forme di suggestione” rappresentate dagli organi di stampa, all’interno dei quali, il giornalista è visto come un leader, mentre i suoi lettori sono visti come ‘una massa plasmabile su cui la sua mano lascia la propria impronta’

La teoria ipodermica

Lasswell, nel suo saggio propaganda technicques in the world war, pubblicato nel 1927, come già affermato, non si discosta assolutamente da questa visione amorfa e passiva della massa. Il medium, considerato onnipotente, si suppone agire secondo le modalità dell’ago ipodermico, ovvero, tramite esso si può ‘iniettare’ un’influenza in maniera immediata, indolore e su chiunque.

Nella prospettiva ispirata alla psicologia comportamentista la teoria assimila il messaggio persuasivo ad uno “stimolo” che, se opportunamente predisposto, può indurre nel destinatario una “risposta” nella direzione voluta dalla fonte: la modificazione di un comportamento pro-sociale, elettorale, o d’acquisto.

La teoria ‘that never was’

Molti autori, tra cui McQuail (1983) e Wolf (1985) tuttavia precisano la natura non-scientifica di questa teoria ipodermica, la quale, affermano, è sostanziata più da un diffuso clima d’opinione che non da un insieme organico di conoscenze empiricamente verificate, senza però svalutare il ruolo fondamentale che ha avuto nella storia degli studi sui media e nella società. Anche Lang e Lang (1981), che ne parlano come del modello ‘that never was’, sono concordi nel ritenere come fosse possibile individuare chiare espressioni di un diffuso atteggiamento mentale riconducibile alla teoria ipodermica, che non tardò di manifestare il suo impatto sociale nell’organizzazione legislativa e burocratica di organismi ed istituzioni quali, ad esempio, nella Germania nazista, il Ministero per la Propaganda. Si verificò infatti, proprio negli anni trenta, un notevole incremento delle strategie propagandistiche delle potenze dell’Asse da una parte e dell’Unione Sovietica e del Komintern dall’altra.

Si spengono gli ardori

Le ricerche empiriche condotte negli anni ’40 e ’50 dalla communication research sugli effetti dei media mostrano invece come sia le speranze, sia i timori del periodo precedente sul potere di influenza e di persuasione dei mezzi di comunicazione di massa fossero infondati.

Sui risultati di queste ricerche, condotte prevalentemente da Lazarsfeld e collaboratori, si basa la cosiddetta teoria degli “effetti limitati” che va a sostituire la vecchia teoria ipodermica, ma che non vuole, in contrapposizione a quest’ultima, affermare la totale impotenza dei media, ma piuttosto sostenere come una loro eventuale influenza su ciascun membro del pubblico non sia da ritenere un’influenza diretta ed inevitabilmente efficace, ma un’influenza mediata da condizioni e fattori sia psicologici che sociali.

Questa teoria, come del resto quelle che l’hanno preceduta, non si concentra su tutti i possibili effetti dell’esposizione ai mezzi di comunicazione di massa, ma solo sull’influenza sui processi di formazione e mutamento delle singole opinioni, singoli atteggiamenti e singoli comportamenti individuali, cioè su quelli che sono stati definiti “effetti a breve termine”.

I risultati della ricerca (condotta in una cittadina dell’Ohio all’epoca della campagna presidenziale del 1940 e pubblicata in The People’s Choice nel 1944) mostrano che tra i tre possibili effetti dell’esposizione ai media, quello prevalentemente indotto è quello di rafforzamento delle opinioni, atteggiamenti e comportamenti preesistenti, meno frequentemente indotto è quello di conversione, mentre per quanto riguarda l’effetto di orientamento dipende di volta in volta dalla quota degli indecisi.

Questo perché, come già accennato, l’influenza viene mediata da due ordini di fattori:

Questa considerazione viene ulteriormente sviluppata in Personal Influence: The part played by the people im the flow of Mass communication (firmato Lazarsfeld e Kats, 1955) come “ipotesi del flusso di comunicazione a due fasi” o…

Two-step flow of communication

Secondo questa teoria il flusso di comunicazione dai mass media al pubblico vedrebbe la mediazione dei cosiddetti leader d’opinione, cioè di persone che occupano una posizione strategica nella rete di comunicazione all’interno del gruppo o dei gruppi primari e che hanno quindi contatti più frequenti con i membri di questi gruppi.

Il flusso di comunicazione e l’eventuale influenza andrebbero quindi in una prima fase, dai mass media ai leader d’opinione e in una seconda fase da questi alle altre persone all’interno dei gruppi primari.

L’immagine generale che risulta da queste teorie degli effetti limitati è quella dei mezzi di comunicazione di massa come fonti di influenza tra le tante, anche se, come affermano alcuni autori, si creò, nella storia della ricerca sugli effetti dei media, il mito dell’impotenza dei media, che ebbe un’influenza tale da arrestare, almeno temporaneamente, alcune direzioni di ricerca. Secondo Lang e Lang ciò è dovuto ad una combinazione di due fattori: il primo è la concentrazione su di una limitata gamma di effetti (quelli a breve termine), il secondo è l’esagerata importanza attribuita a due testi, il già citato Personal Influence e The effects of Mass Communication di Klapper (edito nel 1960). Wolf (1992) sottolinea tuttavia che, pur non trovando sviluppi di ricerca ( probabilmente per mancanza di fondi visto che i maggiori finanziamenti provenivano spesso da agenzie perlopiù interessate ad un determinato ambito di studi circoscritto alla persuasione ed agli effetti a breve termine), erano ugualmente presenti sulla scena del dibattito tutta un’altra serie di osservazioni, spunti di ricerca, cautele e suggestioni di analisi, come testimonia, a mio avviso, l’uscita nel 1957 del famoso volume I Persuasori Occulti di Vance Packard, manifesto della reazione alla ‘pubblicità del profondo’, cioè a tutta una serie di studi di origine psicanalitica che, facendo leva su motivazioni, desideri inconsci e bisogni latenti, vengono applicati alla cosiddetta ‘ricerca motivazionale’ ed alla modificazione dei comportamenti d’acquisto.

Powerful mass media

Nella seconda metà degli anni sessanta la sempre maggiore estensione, articolazione e diffusione delle comunicazioni di massa, la crisi progressiva della dimensione comunitaria con il conseguente indebolimento della funzione di mediazione svolta dai gruppi sociali e lo spostamento di interesse della sociologia delle comunicazioni di massa dalla ricerca sugli effetti a breve termine a quelli a lungo termine, crearono le condizioni per un recupero della nozione di powerful mass media, slogan coniato da E. Noelle-Neumann nel suo saggio del 1973 Return to the Concept of the Powerful Mass Media che esprime l’entità consistente, dovuta a numerosi contributi e cause, del rinnovato interesse per una nuova fase di ricerca sugli effetti sociali dei media che si andava delineando in quegli anni.

La televisione, moltiplicando e differenziando le opportunità di consumo, guadagna un numero sempre crescente di spettatori che dedicano quote sempre più consistenti di tempo libero alla ricezione di programmi televisivi.

Contemporaneamente i mutamenti nella società andavano delineando un graduale venir meno della centralità dei rapporti interpersonali nei tradizionali gruppi primari.

La crisi della famiglia e della scuola e la disgregazione sociale che colpisce anche la struttura del gruppo dei pari, iniziano a creare una situazione di isolamento culturale nella quale vengono a cadere i meccanismi di mediazione e di filtro che il pubblico può opporre ai media.

Se nei decenni precedenti i media si presentavano come agenzie di socializzazione tra tante, ora, con il venir meno dell’influenza della famiglia, della scuola, del gruppo dei pari e di altre istituzioni sociali, emergono come le agenzie privilegiate e tra queste si impone la televisione.

Il punto di svolta rispetto all’esaurirsi della tradizione degli effetti limitati è costituito dall’apparire sulla scena di due modelli dagli ‘effetti forti’, ovvero, la teoria della spirale del silenzio e quella della coltivazione, anche se, altre teorie che rivalutavano il potere dei media, erano già state proposte.

Agenda-setting

Termine coniato da M.E.McCombs e D.L.Shaw in The agenda-setting Function of the Press (1972) per sostenere che l’influenza dei mezzi di comunicazione di massa risiede nel fatto che questi ultimi attirano l’attenzione del pubblico su temi, eventi, personaggi, determinandone l’importanza ed escludendo altri temi, eventi e personaggi che potrebbero potenzialmente avere la stessa obiettiva rilevanza.

In pratica, secondo questa teoria, il potere dei media non sta nel proporre e quindi influenzare le opinioni, ma nell’imporre i temi su cui avere un’opinione, nel decidere ciò che va al centro e ciò che va ai margini del villaggio globale.

Spirale del silenzio

E.Noelle Neumann, per sostenere il ritorno alla nozione di powerful mass media si basa su tre evenienze che caratterizzano il sistema delle comunicazioni di massa ed il suo operare:

  1. Ubiquità: la sempre più pervasiva presenza dei media, in particolare la televisione nella vita quotidiana del pubblico.
  2. Consonanza: l’accentrarsi della loro funzione di dispensatori di conoscenze e informazioni sostanzialmente omogenee su ciascun problema e su ciascun evento, trattati allo stesso modo nei diversi mezzi.
  3. Cumulazione: la ripetitività, la trattazione reiterata di determinati problemi, eventi, personaggi, collocati costantemente in primo piano e imposti all’attenzione del pubblico.

Questa autrice, nella formulazione della sua teoria, ribalta la premessa alla base dell’agenda-setting, secondo cui i media indicano su che cosa avere un’opinione e non quale opinione avere, sostenendo che i gruppi di potere possono, tramite i media, non solo esprimere le proprie opinioni, ma anche lasciar supporre al pubblico che queste stesse opinioni siano diffuse e condivise più di quanto non sia effettivamente, provocando l’illusione di isolamento sociali, se non addirittura di devianza in chi ha opinioni diverse che quindi rinunciano a far valere il proprio punto di vista.

Questo processo che la Noelle-Neumann chiama spirale del silenzio sarebbe quindi una profezia che si autoavvera: le opinioni che, grazie ai media, sono considerate maggioritarie pur non essendolo, finiscono col diventarlo realmente.

La coltivazione

Riconducibile all’ipotesi dei powerful mass media è anche la teoria della coltivazione formulata da G.Gerbner (Cultural Indicators. The Third Voice in Communication Technology and Social Policy, 1973), il quale si occupò esplicitamente degli effetti della televisione sui processi di costruzione sociale del sapere comune, degli stereotipi, dei pregiudizi, sulla base dell’ipotesi secondo cui il processo di trasmissione ed eventuale accettazione delle immagini della realtà che essa propone sia un processo di “coltivazione” a lungo termine, cumulativo e non intenzionale.

Gerbner sostiene innanzitutto che la televisione ha un ruolo centrale nella società americana e che, coltivando fin dall’infanzia predisposizioni e preferenze solitamente accettate dalle altre fonti primarie, costituisce la principale comune fonte di socializzazione e informazione per una popolazione altrimenti eterogeneo, con un ambiente simbolico comune a tutti.

La sua funzione è eminentemente una funzione integrativa, di controllo sociale, di riproduzione del consenso, a tutela dello status quo e a garanzia dell’ordine sociale.

L’ipotesi che Gerbner vuole verificare in un suo successivo studio (Living with Television: The Violence Profile, 1976) è che i telespettatori più assidui, rispetto a quelli meno assidui, siano più portati a rappresentare la realtà sociale secondo modelli televisivi.

I risultati della ricerca sembrano confermare questa ipotesi, ad esempio i telespettatori assidui, più dei non assidui, valutarono la composizione della popolazione americana secondo l’immagine della popolazione televisiva, e sovrastimarono in misura rilevante la possibilità di essere coinvolti in episodi violenti nella vita reale (sviluppando per questo ansietà e paura).

Tuttavia i risultati di Gerbner potrebbero essere letti in modo diverso, non stabilendo un semplice nesso di tipo causale tra immagine televisiva ed immagine distorta della realtà.

Proprio come gli studi successivi sui contenuti violenti nei programmi televisivi hanno fatto emergere sia la possibilità che essi provochino comportamenti aggressivi, sia la possibilità che possano essere invece i soggetti già predisposti ad assumere un tale tipo di comportamento a scegliere di esporsi a programmi con contenuti violenti, così anche i risultati di Gerbner si prestano a più interpretazioni.

E’ la fiction televisiva che induce a lungo termine concezioni televisive del mondo o sono i soggetti già predisposti alle immagini della realtà, agli stereotipi, ai pregiudizi che la fiction televisiva propone, che si espongono a questo genere di ricezione?

O si tratta di un rapporto circolare tra esposizione e predisposizione nel quale chi si espone viene influenzato e chi è già predisposto sceglie di esporsi?

Losito interpreta la questione in quest’ultima maniera ed attribuisce alla televisione un peso rilevante nel contribuire a determinare la concezione della realtà di certi segmenti di pubblico, senza per questo considerarla onnipotente.

La teoria della coltivazione diede il via alla riflessione su…

I media come agenti di socializzazione

Per socializzazione si intende quel processo attraverso il quale ogni attore sociale apprende quanto è richiesto per vivere in una data società e in un determinato momento storico, dai modi di comunicare alle conoscenze, dai valori alle norme sociali, dagli atteggiamenti alle rappresentazioni sociali, dalle prerogative di status alle aspettative di ruolo, e così via…

Come è ormai evidente che i mezzi di comunicazione di massa svolgano anch’essi una funzione di socializzazione, così, sostiene Losito, è altrettanto evidente che la loro influenza è tanto più rilevante quanto più deboli ed inefficaci sono le altre agenzie di socializzazione e quanto più povere sul piano cognitivo, culturale e psicologico sono le persone che ad esse si espongono.

Dire che i media sono agenzie di socializzazione significa anche affermare che i media propongono esplicite ed implicite immagini del reale, più o meno coerenti, che possono intervenire nei processi di formazione, consolidamento e mutamento delle rappresentazioni individuali e sociali e nei processi di costruzione sociale della realtà.

Ed infatti, proprio dei media come costruttori di realtà sociale si è cominciato a parlare estesamente negli anni Ottanta, in particolare con gli studi di Lindlof (1987;1988), Lull (1988) e Meyrowitz (1985). Studiare come i media contribuiscono alla costruzione sociale della realtà implica focalizzare l’attenzione analitica sull’impatto che le rappresentazioni simboliche dei media hanno nella percezione soggettiva della realtà sociale.

Mass media e rappresentazioni sociali

Quindi i media, proponendo immagini, concezioni, rappresentazioni del reale influiscono sui processi di costruzione sociale della realtà e sui processi in virtù dei quali ciascun membro del pubblico costruisce il proprio sapere sul mondo.

In sintesi: i media influiscono sulla costruzione delle rappresentazioni di ciascun individuo.

Una rappresentazione è paragonabile ad un modello che semplifica, interpreta e attribuisce un senso alla realtà e che quindi ha anche la funzione di orientare il comportamento individuale e collettivo, coinvolgendo ad un tempo la dimensione cognitiva, valoriale e normativa.

Questo concetto è assimilabile, afferma Losito, a quello di rappresentazione sociale spiegato da Moscovici.

Una rappresentazione sociale, che non è soltanto una costellazione individuale di conoscenze, valori e modelli di comportamento, ma anche una realtà condivisa, un fatto sociale, frutto e condizione della comunicazione e delle interazioni sociali, si forma tramite due processi:

I media e l’offerta mediale costituiscono una componente di primaria importanza nei processi di oggettivazione e ancoraggio, in ragione dei quali si origina e si consolida una rappresentazione sociale.

Essi oltre a fornire informazioni nuove o riprodurre informazioni già disponibili relative all’oggetto di una rappresentazione sociale, sono in grado di influenzare l’organizzazione gerarchizzata degli elementi costitutivi delle rappresentazioni sociali e conseguentemente possono influenzare l’atteggiamento positivo o negativo nei confronti dell’oggetto della rappresentazione sociale.

In pratica, operando sulla scelta delle informazioni, sull’importanza di queste rispetto ad altre, veicolano anche un esplicito od implicito atteggiamento riguardo ad un oggetto sociale, influenzando quindi il comportamento del pubblico; comunicano immagini distorte della realtà che modificano quei modelli di comportamento che hanno la funzione di orientarsi nel mondo e nella società e che su quelle immagini della realtà si basano.

Questo processo è in genere intenzionale per quanto riguarda gli effetti a breve termine, mentre per quelli a lungo termine è solitamente involontario.

Il fare riferimento alle rappresentazioni sociali permette di comprendere non solo come agisce l’influenza dei media sull’individuo ma anche come questo possa opporre una resistenza al processo che si instaura, sia per i processi a breve sia per quelli a lungo termine, nel rapporto con i mezzi di comunicazione di massa.

Se ad esempio i media hanno il potere di fornire informazioni nuove su un oggetto di una rappresentazione sociale e hanno anche il potere di influire sulla gerarchia delle informazioni e di veicolare un atteggiamento positivo o negativo, è l’individuo che è ancora padrone dei processi di selezione, organizzazione ed elaborazione e che ha un bagaglio cognitivo, normativo e simbolico che preesiste all’esposizione ai media e che con questa interagisce e si confronta.

Da questa considerazione si approfondisce ulteriormente la consapevolezza dell’importanza delle componenti individuali, culturali e psicologiche del pubblico, collegate del resto alla struttura sociale dei gruppi primari nei quali ogni individuo si inserisce.

In particolare la componente psicologica degli spettatori emerse come rilevante negli studi sugli effetti dei contenuti violenti nei media e nella televisione.

A scuola di violenza

Anche se i risultati delle ricerche sia sperimentali sia empiriche, condotte negli ultimi vent’anni da moltissimi studiosi (tra cui Bandura 1973,Freedman 1984,Roberts e Maccoby 1985, Phillips 1986, Romano 1986, Ishii 1991, Leyens e Dunant 1991) non sono del tutto concordi emerse tuttavia la conclusione che gli effetti della televisione vanno rapportati alla personalità e all’esperienza sociale degli spettatori ( e dei piccoli spettatori ), con la possibilità di definire a “rischio” i soggetti che vivono in una condizione personale di disadattamento psicologico e sociale, i quali possono essere influenzati negativamente dagli effetti dei contenuti violenti della televisione.

In genere si preferisce, come già accennato, stabilire una connessione di tipo circolare tra rappresentazione della violenza dei media e aggressività: la violenza nei media può suscitare comportamenti aggressivi verso gli altri o verso se stessi in soggetti predisposti, che sono anche quelli che maggiormente si espongono a contenuti violenti.

La predisposizione soggettiva, quindi la condizione psicologica individuale, è fondamentale nel realizzarsi o meno di un’influenza da parte dei media.

Tuttavia tale predisposizione soggettiva è strettamente correlata alla situazione sociale, cioè al buon funzionamento dei gruppi primari di socializzazione, cioè famiglia, scuola, gruppo dei pari, etc…

Si comprende così, come il legame tra violenza rappresentata e aggressività viene con più frequenza accertato nelle culture divise dei ghetti, tra gli emarginati, tra le persone caratterialmente più fragili.

Conclusione

La conclusione che sembra delinearsi da questa panoramica storica sulla ricerca degli effetti sociali dei media e che propone Losito è quella che, ridimensionando il mito dell’onnipotenza dei media ne inserisce l’influenza all’interno di una molteplicità di fattori sia individuali che sociali, che, se in una qualche situazione, vengono a mancare, allora si può parlare di un qualche pericolosa influenza dei media, i quali sono tuttavia imputabili di gravi colpe nel proporsi come “scuola di violenza”, come strumento di propaganda politica urlata , ma anche nell’asservimento alle routine produttive, nel favorire la crisi della professionalità, la caduta della qualità, nell’offesa, sempre più frequente, al buon senso e all’intelligenza del pubblico.

Bibliografia utilizzata

Losito Gianni , Il Potere dei Media, La nuova Italia scientifica, 1994

Mattelart Armand e Matteart Michèle, Storia delle teorie della comunicazione, Lupetti , 1997

McQuail Denis, Le comunicazioni di massa, Il Mulino, 1994

Mucchi Faina Angelica, L’influenza sociale, Il Mulino, 1996

Wolf Mauro, Gli Effetti Sociali dei Media, Bompiani, 1992


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